Caro professore

Di Economia e lavoro, Società e cultura

Maggio 2006 – Lettera a un futuro Presidente del Consiglio con considerazioni a ruota libera sul futuro dell’Italia

Caro prof. Prodi,

la interessante chiacchierata avvenuta insieme ad altri amici imprenditori lunedì sera mi ha stimolato ad alcune riflessioni e pertanto raccolgo il suo invito di sottoporle alla sua attenzione.

Abbiamo convenuto che la situazione in cui si trova il nostro Paese è molto seria e che di conseguenza sarebbero necessari interventi profondi e molto incisivi. Non nascondo che in diversi frangenti mi capita di osservare una percezione distorta della realtà. Mentre da parte dello schieramento di centrodestra si assiste ad un irresponsabile rifiuto di guardare la situazione con realismo, nello schieramento di centrosinistra registro una pericolosa tentazione ad attribuire le difficoltà del Paese ai cinque anni di governo Berlusconi. Non è così, e sono convinto che lei ne sia ben consapevole: i problemi vengono da lontano e sono in buona misura di carattere strutturale. All’attuale maggioranza si può imputare di non aver fatto niente per risolverli e quindi di aver fatto perdere al Paese cinque anni preziosi, oltre ad aver aggiunto nel corpo sociale alcuni pericolosi virus non facili da estirpare, ma non è dall’attuale malgoverno che derivano le preoccupazioni per il futuro dell’Italia. Esse nascono da alcune caratteristiche endemiche del nostro sistema che l’attuale contesto economico mondiale porta a far diventare fattori di grande debolezza.

Mi soffermo in particolare sulla struttura del sistema industriale che è stata al centro della discussione di lunedì. 

Le mie riflessioni scaturiscono, come ovvio, dalla mia esperienza personale e dagli stimoli che giungono al mio osservatorio di imprenditore di una media impresa nel difficile settore dell’ICT. Leggo il divenire della mia impresa con le sue complessità e i suoi problemi di mercato e di competitività e al tempo stesso raccolgo e sintetizzo quello che vedo osservando le dinamiche evolutive dei nostri clienti, imprese di piccole, medie e grandi dimensioni, italiane e multinazionali, appartenenti ai più diversi settori e distretti industriali.

Lo scenario di fondo è il profondo ridisegno in atto della geografia economica mondiale, da tutti ben noto, e l’elemento di maggiore debolezza è rappresentato, come lei ha giustamente sottolineato, dalla dimensione delle nostre imprese, che non le mette in grado di giocare nella nuova dimensione planetaria. A questo si aggiunge  la mancanza di crescita nella produttività complessiva del sistema-paese.

La nostra attuale stagnazione (“la crescita zero”) oltre a fotografare la difficoltà, è essa stessa un fattore alimentante della crisi. Le grandi multinazionali, che volenti o nolenti costituiscono uno degli elementi trainanti dell’economia mondiale, stanno operando un riassetto decisivo della loro presenza, spostando risorse e investimenti verso i paesi a maggior crescita: dall’Europa all’Oriente e, all’interno dell’ Europa, dall’Italia alla Spagna e ai Paesi dell’Est. Lo vediamo costantemente anche nel nostro settore. E non si può dar loro torto: a fronte delle performanceregistrate dal settore IT in Italia nel 2005 (+ 0,9%, vero fanalino di coda anche in Europa), in Cina la crescita del settore è stata del 19,7 %! Diventa pertanto sempre più difficile intercettare investimenti nel nostro territorio. 

Personalmente ho una opinione un po’ diversa dalla sua sulla nostra possibilità di mantenere in Italia una produzione industriale di larga scala in settori manifatturieri, a meno che non siano ad altissimo valore aggiunto. Dobbiamo prenderne atto e governare con attenzione e provvedimenti straordinari un processo di profonda riconversione. Ho sentito con interesse al convegno di Vicenza il Commissario Europeo alla Concorrenza citare la recentissima costituzione di un nuovo Fondo Europeo di supporto alla trasformazione industriale per la globalizzazione. E’ una iniziativa importante e carica di significati alla quale noi dobbiamo agganciarci. Per noi il processo potrebbe essere ancora più doloroso a causa della nostra specializzazione in settori maturi e/o a basso contenuto tecnologico, dove non possiamo più avvalerci di una “competizione sul costo”.

Dove andare dunque.

Nessun dubbio sul fatto che l’Italia, più di tanti altri paesi (più di tutti, mi verrebbe da dire) ha una identità forte e precisa su cui si può/deve costruire per delineare la nostra “missione” nel mondo.

“…l’estro per l’estetica e il design, la capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale del territorio, la cultura millenaria, l’ambiente, l’arte……” per citare un articolo scritto qualche mese fa da Amato e De Benedetti. Tutto ciò identifica in modo inequivocabile le caratteristiche positive su cui puntare. E’ un patrimonio già esistente da cui partire, e ci dota di  una “barriera all’ingresso” quasi infinita.

Se dunque dobbiamo assecondare le nostre potenzialità ed evitare i terreni per noi ostici la strada è quella indicata nelle considerazioni di Amato e De Benedetti: “puntare su settori e produzioni ad alto contenuto qualitativo e simbolico”. Si tratta di andare ad occupare, nella segmentazione industriale del pianeta, l’alto di gamma, la punta della piramide, il consumo elitario e sofisticato legato a doppio filo albrand“Italia”, ancora da rafforzare, ma già ampiamente riconosciuto come sinonimo di eccellenza, di gusto, di raffinatezza. Questo può avvenire in quasi tutti i campi: dall’alimentare all’arredamento, dalla moda alle ceramiche, e anche all’automobile. In molti settori questo ruolo ci è già riconosciuto, in altri ci stiamo consolidando. Basti pensare alla cantieristica da diporto settore in cui altri (soprattutto i francesi) dominano nelle  produzioni di larga scala e nei segmenti medio-bassi, mentre noi stiamo diventando leader mondiale per i prodotti di gamma altissima.

Sono solo nicchie di mercato? Sono nicchie, ma la domanda mondiale è forte e, soprattutto con l’arricchimento progressivo di nuove aree del pianeta, la domanda è fortemente crescente.

Dopotutto l’Italia non è un paese grande e può tranquillamente prosperare puntando a indirizzare con il proprio sistema industriale la fascia alta della domanda mondiale.

Per fare questo occorre un Progettocomplessivo che coinvolga tutti e convogli in una direzione precisa tutti gli sforzi. 

Una parte importante di questo progetto potrebbe essere una grande campagna di comunicazione, di orizzonte internazionale che rafforzi l’immagine italiana passando dal “fabbricato in Italia” (made in Italy) che ha sorretto il nostro sistema industriale negli anni passati, al “creato in Italia” che valorizza il pensiero e la progettazione italiana come elemento distintivo della nostra offerta. La campagna deve essere naturalmente coerente con l’idea di Paese che vogliamo trasmettere e non deve ricalcare “vecchi stereotipi”, ma diffondere una immagine di serietà e affidabilità che valorizzi le nostre capacità creative, già molto spesso riconosciute, anche in settori innovativi e ad alto contenuto tecnologico. Trovo più utile indirizzare le poche risorse pubbliche disponibili ad un grande progetto di comunicazione piuttosto che a piccoli rivoli di sostegni alle singole imprese, difficile e costosi da selezionare e spesso comunque insufficienti. Questa campagna farebbe da “ombrello” all’iniziativa di tutte quelle imprese, anche quelle piccole, anche quelle che devono ancora nascere,  che hanno o avranno l’opportunità di giocarsi sui mercati mondiali, ma che non possono contare, a causa delle loro piccole dimensioni, su  un proprio brand già affermato

Il “creato in Italia” deve diventare il brandche ci accompagna per i prossimi 30 anni legittimando nel mondo l’intero Paese e consentendoci  di intercettare la domanda mondiale di “alto di gamma”. Solo affermandoci in quella fascia di mercato (dove già peraltro siamo leader riconosciuti in alcuni settori) possiamo mantenere alcune produzioni di eccellenza in Italia assorbendo l’alto costo di produzione con il valore simbolico che riusciamo ad incorporare nei prodotti. Solo affermandoci in quella fascia di mercato possiamo gradualmente riconvertire il nostro sistema produttivo selezionando attività manifatturiere di eccellenza da continuare a realizzare nel nostro Paese e attività a più basso valore aggiunto da trasferire progressivamente in altre aree del pianeta.

Lo spostamento dal “fabbricare” al “pensare” deve guidare tutte le aree di intervento.

Anche la scuola deve essere orientata allo stesso obiettivo. I tentativi di riforma messi faticosamente in piedi in questi anni mi sembra che si inseriscano nella scia di indirizzi progettati in paesi molto diversi dal nostro. L’ istruzione universitaria abbreviata risponde più alla domanda di grandi numeri tipica dei paesi dotati di grandi organizzazioni industriali. Bisogna evitare il rischio che per allargare la base  si comprometta il vertice. Per rispondere al progetto di un’Italia di eccellenza anche il nostro sistema di studi deve evocare in tutto il mondo la stessa idea di eccellenza e di esclusività. Le nostre Università devono tornare ad essere meta di studenti da ogni parte del pianeta, spinti dalla consapevolezza che su certe materie non esista  alternativa confrontabile (certamente in tutti i campi umanistici, ma anche nel diritto, nell’economia, nella medicina, nelle scienze della vita e, perché no, in alcune specializzazioni di frontiera e in alcune branche dell’ingegneria). La tradizione e l’antichità delle nostre Università può rappresentare, se ben sfruttata, una unicità a cui non si può fare concorrenza. In altri paesi si eccelle nei sistemi produttivi, in Italia si deve eccellere nello Studio (la strada in questa direzione non è facile, come lei ha sottolineato lunedì sera).

E’ certo che se vogliamo incentrare su creatività e innovazione l’asse del sistema industriale italiano è necessario che innovazione si faccia davvero e in modo diffuso. E a questo proposito si inseriscono tutte le considerazioni dell’altra sera sulla assoluta necessità di “snidare” i talenti che in Italia non mancano.

Sul tema della Ricerca mi sembra opportuna una riflessione, dal momento che in questi ultimi tempi se ne fa un gran parlare e si rischia di vedere l’aumento della spesa in ricerca come la panacea a tutti i mali della nostra economia. E’ difficile, se non impossibile, per una piccola impresa fare ricerca, se ricerca, per definizione, vuole dire esplorare senza conoscere in anticipo le possibilità di successo e quindi di ritorno dell’investimento. Teniamone conto. Passare dall’attuale 1,1% del PIL al 3% entro il 2010 è già di per sé un obiettivo molto ambizioso, ma  ancora più ambizioso è  far raggiungere alla ricerca privata il 2% del PIL dall’attuale  0,47%, con il nostro tessuto imprenditoriale. Dobbiamo mettere in moto meccanismi di “aiuto” anche originali e pensati per il nostro contesto: da noi, ancora più che altrove, è indispensabile un apporto forte della ricerca pubblica agevolando la “contaminazione virtuosa” tra Università e Impresa ed attivando soggetti di collegamento e di intermediazione che promuovano il trasferimento tecnologico. Condivido a tal proposito le proposte di defiscalizzazione delle attività di R&S che ci ha illustrato. A queste si potrebbe affiancare una proposta tutto sommato “a basso costo” che potrebbe contribuire quanto meno a mettere in moto il processo di contatto e di “contaminazione virtuosa” e che consisterebbe nell’assegnare “in modo organico”  ad ogni professore universitario una sorta di tutorshipnei confronti di una o più aziende, secondo schemi già in uso in alcuni Paesi. 

 Un altro asse di iniziativa da far decollare in questo campo è l’attrazione nel nostro paese di Centri-Studi e di Laboratori di Ricerca stranieri. La percezione del contesto italiano come eccellente nell’attività di pensiero può legittimarci a raccogliere insediamenti importanti di organismi internazionali dediti alla Ricerca o di reparti di R&S di grandi imprese multinazionali. Nella ridistribuzione della geografia economica mondiale altri paesi, adatti per risorse umane ed infrastrutture logistiche, attireranno investimenti produttivi labour-intensivecapital-intensive. L’Italia invece, forte di  un altro tipo di risorse umane e di un altro tipo di infrastrutture (meno invasive, meno costose e quindi più adatte al nostro Paese), si potrà ritagliare il ruolo di attrattore degli investimenti brain-intensive.Ciò in prospettiva potrebbe fare da volano per iniziative italiane, consentendoci, tra l’altro, la spinta in settori come le grandi società di progettazione e di ingegneria, dove possediamo tradizioni brillanti.

Ultimo tassello della strategia di valorizzazione della creatività italiana è inevitabilmente il Turismo che non a caso cito per ultimo perché non deve diventare, come in qualche caso è stato detto, l’unico appiglio e l’unico destino dell’Italia. Ma, vivaddio, credo che, orientato in modo coerente con quella strategia, non possa non costituire una risorsa formidabile anche dal punto di vista economico. L’attrazione del sistema-paese diventa anche attrazione per chi voglia apprezzare direttamente e toccare con mano “…l’estro per l’estetica e il design, la capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale del territorio, la cultura millenaria, l’ambiente, l’arte……”.

E da tutto il mondo dovrebbero fare la fila!

Caro professore mi fermo qui. 

Abbiamo condiviso scendendo le scale lunedì che lo sforzo di cui ha bisogno l’Italia è titanico e che la trasformazione non sarà indolore. Durante il percorso si dovranno “tamponare” situazioni critiche relative a settori, comparti e individui messi di fronte a cambiamenti difficili e qualche volta traumatici. Per questo motivo chi governa il Paese e si assume la responsabilità di guidare la transizione deve mettere in atto anche azioni di sostegno e di compensazione atte a garantire la compattezza e l’equilibrio sociale. Ma su questo terreno so di sfondare una porta aperta.

Come le accennavo il mio atteggiamento è comunque di ottimismo. E l’ottimismo è necessario insieme ad una voglia di intraprendere e di rischiare che nel Paese dovrebbe essere più diffusa. Tenga presente che le nuove tecnologie cambiano molti paradigmi e ci possono dare una mano (potremmo parlare a lungo di questo tema se ne avesse interesse): forse non è detto che a quell’imprenditrice con trenta dipendenti e con un prodotto di altissima qualità, a cui lei ha fatto riferimento, debba essere necessariamente precluso il grande mercato cinese.

Grazie per lo spazio concessomi e in bocca al lupo, professore.

Last modified: 10 Febbraio 2021

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